[B900] B900, Segnalazioni/A - Resoconto di convegno
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redazione a boll900.it
Dom 24 Lug 2011 23:47:14 CEST
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BOLLETTINO '900 - Segnalazioni / A, agosto 2011
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SOMMARIO:
- Eleonora Conti, Monica Jansen
Resoconto del convegno:
"Il giallo e il nero. Riflessi dell'antisemitismo
nella letteratura ebraica moderna"
V convegno ICOJIL (International
Conferences of Jewish Italian Literature)
(Trento, 28-29 gennaio 2011)
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Eleonora Conti, Monica Jansen
Resoconto del convegno:
"Il giallo e il nero. Riflessi dell'antisemitismo
nella letteratura ebraica moderna"
V convegno ICOJIL (International
Conferences of Jewish Italian Literature)
(Trento, 28-29 gennaio 2011)
Si e' svolto a Trento, nella Sala degli
affreschi della Biblioteca Comunale, su
iniziativa del Centro Studi Zygmunt Bauman,
fondato presso la locale universita' da
Luca De Angelis e Ada Neiger, il quinto
convegno della serie tutelata da
ICOJIL (International Conferences of
Jewish Italian Literature), gruppo di
studi nato in occasione del primo convegno
di Amsterdam del 2006. La scelta della sede
per un incontro di studi sui riflessi
dell'antisemitismo nella letteratura
ebraica moderna non e' stata casuale,
dato che la citta' di Trento fu teatro,
durante la Pasqua del 1475, di un cruento
episodio di antisemitismo: la leggenda del
piccolo San Simonino, un bambino cristiano
che si presunse gli ebrei avessero sacrificato
per ricavarne il sangue necessario per i loro
occulti riti religiosi, costo' la vita a gran
parte della comunita' ebraica trentina del
tempo ed e' viva ancora oggi. Nel
castello del Buonconsiglio si trovano
alcuni dipinti che testimoniano il perdurare
del culto di San Simonino, martire e beato,
e un palazzo barocco del centro storico
della citta' ne porta le effigi. Tra gli
spunti di riflessione offerti dal convegno,
il mito di San Simonino ha costituito una
sorta di filo rosso, anche se casuale, tra
diversi interventi, come quelli dedicati
all'ultimo romanzo di Umberto Eco,
*Il cimitero di Praga*, il cui protagonista
antisemita si chiama Simone Simonini, e il
contributo sullo scrittore Miro Silvera,
che nel 1973 ideo' la sceneggiatura di un
film, che poi non vide mai la luce, inteso
a svelare la mistificazione dell'accaduto.
Gli organizzatori, Luca de Angelis e Ada
Neiger, hanno aperto i lavori con una
espressione del poeta Brodsky: "La
letteratura e' l'unica forma di
assicurazione morale che una societa'
puo' avere". Cio' significa non solo che
alla cultura spetta il compito di dare
una forma intelligibile all'indicibile,
ma anche quello di creare le condizioni
morali necessarie perche' all'umanita'
possa essere garantito un futuro.
Tale compito spetta anche alla memoria
cinematografica dell'olocausto in Italia,
studiata da Emiliano Perra nel volume
*Conflicts of Memory: The reception of
Holocaust Films and TV Programmes in
Italy*. Attraverso i dibattiti pubblici
generati dalle produzioni cinematografiche
e televisive dei decenni del dopoguerra,
e' possibile ricostruire una memoria
fortemente politicizzata, imperniata su una
dialettica dominante di vittimismo e di
innocenza, nella quale gli italiani si
sono sentiti vittime del nazismo al pari
degli ebrei. Relegando la questione della
Shoah all'est europeo, gli italiani hanno
stentato dunque a riconoscere il proprio
coinvolgimento nel fenomeno dell'antisemitismo
e nella conseguente persecuzione degli ebrei.
Il mito di una riuscita assimilazione della
comunita' ebraica a partire dall'unificazione
italiana, basata su uno spirito nazionalista
e democratico, non sembra affatto spento:
ne e' una spia il fatto che l'ultimo romanzo di
Eco abbia incontrato tanta resistenza sia presso
Lettori cattolici che presso la comunita' ebraica -
come testimonia un intervento di Anna Foa in
proposito - tanto che l'autore stesso e'
stato accusato di antisemitismo.
Secondo Giovanni Palmieri cio' che ha inteso
fare Eco nel *Cimitero di Praga* e' stato
piuttosto ricostruire le pratiche con cui nella
storia si e' costruito il falso, e non costruire
egli stesso un monumento al falso. L'errore di
lettura, che tradisce una chiara confusione tra
immedesimazione nel protagonista antisemita del
libro e costruzione della sua identita' e' una
riprova del fatto che esiste ancora un rifiuto a
riconoscere nella cultura la presenza di un
antisemitismo che precede il genocidio ebraico
e che quindi non nasce e muore con esso.
Prospettiva storica e' anche quella da cui
ha osservato la questione Elena Mazzini,
analizzando l'andamento dell'interesse per
la memoria della Shoah nel dibattito italiano
nei decenni del dopoguerra. Un dibattito che
negli anni Cinquanta fu fortemente condizionato
dalla politicizzazione degli schieramenti.
In quel momento cosi' poco propizio ai bilanci
e alle assunzioni di colpa, tutto impregnato
della tendenza all'innocentismo di cui si e'
detto e dall'ansia di ricostruzione post-bellica,
interviene pero' un evento che senz'altro si
colloca al di fuori di ogni previsione di
successo, ossia la pubblicazione del *Diario*
di Anne Frank: secondo Bruno Bettelheim,
la potenza di questo diario sta nella
capacita' dell'individuo di superare
l'orrore del Lager con l'attaccamento
alla sfera dell'intimita', ai ritmi quotidiani.
Diversi esempi letterari "minori", nel senso datoci
da Deleuze e Guattari, hanno portato luce su una
identita' ebraica che prende forma nella sua
specificita' e cultura gia' nell'Ottocento, nonostante
la tendenza dominante ad omologarsi. Tra questi c'e'
il romanzo ottocentesco, riscoperto e ripubblicato
da Stefania Segatori nel 2009, *Lia o la fanciulla
ebrea* di Giovanni Battista Intra. Nonostante
sia percorso da una vena di antisemitismo
cristiano che spinge l'autore a raccontare
una storia di conversione, il romanzo narra la
raffinata cultura di una facoltosa famiglia
ebrea nella sua casa del ghetto di Mantova,
una citta' che solo nell'Ottocento inizio'
a mostrare segni di intolleranza verso la
scomoda ricchezza degli ebrei. Cosi' pure
avviene per le novelle dell'autore milanese
Gino Racah, pubblicate per la prima e ultima
volta a Firenze nel 1913, indagate da Carlo
Tenuta attraverso Dante Lattes, il suo primo
esegeta. Esse dimostrano come negli anni Venti,
nella Milano di Racah e nella Trieste di Lattes,
prendeva forma una particolarita' dell'essere
e sentirsi ebrei, data dai "tristi effetti"
di un doloroso ripiegamento su se stesso, come
recita appunto il titolo della raccolta. Racah
era sionista e studioso di temi antisemiti.
L'ideale di una citta' apolide forse non per caso
e' stato concepito gia' nel Cinquecento dal facoltoso
marrano Marco Perez di Anversa, umanista e mecenate
che ripara a Basilea e continua a supportare da li'
gli esuli. Egli ha dato il suo contributo alla formazione
della *Methodus apodemica* di Zwinger, uno dei primi
teorici dell'arte del viaggiare, con la descrizione di
quattro citta' esemplari per sviluppare nuove forme
di governo. Silvia Gaiga cosi' illustra i frutti
intellettuali a cui porto' involontariamente
l'antisemitismo delle dispute religiose.
L'identita' ebraica paradossalmente
puo' passare anche attraverso sentimenti
antisemiti vivi all'interno della propria
comunita', come dimostra il curioso caso
di Umberto Saba, il cui complesso rapporto
con la propria origine ebraica e' stato
indagato con notevole acume critico da
Fulvio Senardi. Lo studioso smonta il
pregiudizio sul presunto antisemitismo
di Saba - affermatosi con uno studio di
Giorgio Voghera degli anni Ottanta -,
non solo a partire dalla sua produzione
poetica, ma anche avvalendosi di alcuni
testi sabiani non destinati alla
pubblicazione. Tra questi la lettera indirizzata
a Mussolini in occasione delle Leggi
razziali e il botta e riposta con il
suo psicanalista in cui spiega le ragioni
della propria severita' verso certi
atteggiamenti degli ebrei osservanti e dei
propri traumi d'infanzia, tanto da spingere
il medico a identificare in Saba l'essere
ebreo con uno stato di psichismo.
Nel caso di altri poeti invece e' possibile
testimoniare un'identificazione con la vittima
ebrea in base ad un'universalizzazione del dramma
dell'Olocausto. Per Pier Paolo Pasolini, su cui
si e' soffermata Francesca Ricci, l'immedesimazione
con il popolo perseguitato, in cui egli si identifica
anche per ragioni biografiche - per la presenza di
sangue ebreo nel suo albero genealogico -,
causa intricati problemi ideologici che da un lato
lo spingono a paragonare i kibbutz ai Lager nazisti
e dall'altro lo portano a scrivere un delirante
monologo di Pio XII (ne *L'enigma di Pio XII*)
in cui questi vede in Hitler un ebreo escluso,
i cui crimini vengono minimizzati e ridotti a
"semplici peccati".
La posizione ambivalente di Pasolini, che parte
dall'idea universale che l'ebreo, come il "negro",
faccia parte di ogni umanita' bandita ed esclusa
e che porta a trovare una logica persecutoria
anche negli stessi ebrei, verrà sviluppata da
altri scrittori in una 'terza' posizione ibrida,
che considera l'ebreo come l'alterita' che fa
scattare un odio non piu' analizzabile con
l'aiuto di opposizioni binarie o di categorie
storiche. Si chiede, meravigliato, Vittorio Sereni,
altro poeta trattato da Ricci, in una sua poesia:
"Cosa ci fanno qui le piccole svastiche nel Bronx?"
(*Lavori in corso* da *Stella variabile*).
Anche il dramma teatrale *Il dio Kurt* di Alberto
Moravia solleva complesse questioni morali,
come ha rilevato Antonio Rosario Daniele.
Nel testo emergono infatti richiami alla
cultura ebraica che fanno pensare all'opera
non solo come a un momento importante dell'esame
condotto da Moravia sul momento storico-politico
in questione (il dramma e' ambientato in un Lager
ed ha per protagonisti un maggiore nazista e il
suo compagno ebreo) ma anche a un'occasione per
fare i conti col proprio sofferto rapporto con
l'ebraismo.
Si pensi poi al discusso romanzo *Le benevole*
(in originale: *Les Bienveillantes*) dell'ebreo
americano Jonathan Littell, che conduce il
lettore nei labirinti della mente malata di un
ex ufficiale SS. Gianluigi Simonetti, nella sua
acuta analisi del romanzo, mostra come il
registro descrittivo - definisce il protagonista
uno "scanner" - e quello visionario onirico - il
protagonista e' anche un narratore inaffidabile -
insieme costruiscano una conoscenza che solo la
finzione può dare, e cioe' che l'antisemitismo
non e' tanto l'odio dell'altro ma l'odio del se'
e in tale prospettiva laica della Shoah l'evento
non e' disumano ma umano e in quanto tale riguarda
tutti.
Un paradosso di altro tipo si materializza
nella musica concepita nei campi di sterminio.
Il musicologo Alessandro Carrieri fa rientrare
la musica di Victor Uhlman prodotta durante il
suo soggiorno a Theresienstadt (in particolare
l'opera *Kaiser von Atlantis*) nell'ambito di
una produzione che nasce dai deportati come
forma di protesta e resistenza. Essa infatti
riprende elementi considerati dai nazisti
di musica degenerata e opera, eludendo il
controllo, una critica al nazismo in modo
ironico e allusivo. In questo modo, Uhlman,
in grado di produrre musica in condizioni
estreme per una sorta di impulso radicato,
quasi biologico, restituisce una dimensione
umana alla vita nel campo, le restituisce -
secondo le parole di Levinas - "l'accoglienza
del volto".
I quesiti morali ed etici si complicano ulteriormente
nelle diverse posizioni politiche tra filo- e anti-
semitismo nel mondo arabo e occidentale come ha
mostrato Raniero Speelman con vari esempi tratti
dagli attuali dibattiti vivi in Olanda e Turchia,
in cui le posizioni filo- o antisemite sembrano
dipendere dall'appartenenza a un preciso colore
politico.
La questione della colpa ci viene tramandata
pero' prima di tutto attraverso le voci delle
vittime, in primo luogo dal testimone Primo
Levi che, come ha dimostrato Giuliana
Cacciola, nei suoi scritti parte dal trauma
dei sopravvissuti, che consiste nell'identificare
vergogna e colpa e finisce per distinguere
i due sentimenti in valori separati per cui
la vergogna ha una dimensione personale e la
colpa invece si trasforma nella volontà di
preservare il passato o, come ha detto
efficacemente Ruth Kluger, di custodirlo
come uno "Zeitschaft", un "temposaggio".
Su Levi si sono soffermate anche Angela Guiso
e Irena Prosenc Segula. La prima, con un'analisi
dei personaggi giovani in *Vizio di forma*,
e' giunta a enucleare il paradossale
desiderio dello scrittore di bandire la
facoltà di nascere ebrei da un'eta' d'oro
di vichiana memoria in cui si puo'
rinascere privi di ogni pregiudizio e
di ogni colpa; la seconda, avvalendosi
della strumentazione retorica di cui Levi
era maestro, e soffermandosi sul genere
dell'autobiografia romanzesca, ha messo in
luce come le reticenze nelle testimonianze
dello scrittore contengano una forte carica
emotiva e alludano all'esperienza dell'indicibile.
Un'altra testimonianza importante che si incentra
sull'elaborazione del trauma e' quella di Aldo
Zargani, analizzata con perspicacia da Natalie
Dupre'. La questione di fondo al centro della sua
relazione e' stata quella della rappresentabilita'
del trauma entro l'opera letteraria. Dupre' ha
indicato come la voce di protesta dell'Io narrante
di *Per violino solo* dia forma non ad una
rappresentazione, bensi' ad una risposta alla paura
della morte. Risposta che impiega l'impossiblita'
della rappresentazione come strategia discorsiva
per una reinvenzione del passato e che portera' l'Io
narrante alla costituzione di un'identita' post-traumatica.
Una tale elaborazione insieme razionale e
sentimentale dell'Olocausto da parte della
vittima e' completamente assente nella poesia
di Uri Zvi Greenberg, esaminata da Sara
Ferrari, che trasforma in un certo senso
l'antisemitismo in anticristianesimo. Il
poeta israelita originario di Vov, che
scrive in yiddish e in ebraico, con il suo
ciclo *Il libro del fiume*, ha dato forma a
una visione senza perdono del "cristianesimo
omicida" in cui Jesus/Gesu' rappresenta il
carnefice cristiano e Yeshu la vittima ebraica.
Oltre alla rabbia e' possibile concepire una
possibilita' di autoricostruzione e di rinascita
del regno in terra d'Israele. Si capisce perche'
questo poeta sia contestato anche in Israele. Il
confronto tra varie espressioni di antisemitismo
nella letteratura ebraica moderna serve proprio
a questo, a comprendere anche le diverse tonalita'
nella narrazione dell'esclusione ebraica, che non
sempre coincide con il dramma della Shoah.
Altri esempi interessanti in una prospettiva
comparatista sono stati l'analisi del romanzo di
Saul Bellow *La vittima* (1947) da parte di Carlo
De Matteis (Bellow fu l'unico scrittore ebreo
americano della sua generazione a reagire nei suoi
testi, quando negli USA arrivarono le memorie della
deportazione e in questo romanzo mette in questione
con una vena ironica e dissacrante la figura del
Salvatore), e di *Sangue del cielo* di Piotr Rawicz,
presentato dalla traduttrice Guia Risari, primo
esempio di narrazione concentrazionaria *fictional*,
scritta nel 1961 da un sopravvissuto.
La prospettiva comparatista non e' servita solo
a evidenziare i diversi modi di narrare
l'Olocausto e le particolarita' nazionali
di tale narrazioni (come fa la gia' citata
analisi storico-culturale di Perra per i film),
ma mette anche in questione la separazione
della letteratura ebraica dalle letterature
di altre minoranze. Come ha giustamente
dimostrato Silvia Marchetti con la sua analisi
di Miro Silvera, che si è autodefinito in un
romanzo "l'ebreo narrante", la presa di parola
negli anni Novanta degli scrittori italo-ebraici,
non in quanto testimoni ma in quanto portavoci
di una propria identità culturale, coincide piu'
o meno con l'avvio della letteratura migrante in
Italia. Perche' allora non studiare l'una come
parte integrante dell'altra?
Presentarsi in primo luogo come scrittore
multietnico e' anche la premessa di Moni
Ovadia, autore italo-ebraico di origini
bulgare, che allestisce opere teatrali e
narrative all'insegna del riconoscimento
dell'alterita' come principio morale di base.
E' in tale ottica che Monica Jansen e Inge
Lanslots hanno presentato due dei suoi spettacoli
teatrali, *Shylock* e *Binario 21*: qui,
attraverso un capovolgimento dei punti
di vista e della divisione dei ruoli, egli
riesce a decostruire l'antisemitismo in quanto
degenerazione del precetto biblico che invita
ad accogliere lo straniero. Per concludere
con una bella frase proprio di Ovadia: "I
sopravvissuti non sono nostri padri, zii
o nonni, ma nostri figli. Dobbiamo prenderli
fra le braccia e portarli con noi per il
nostro futuro, per quello dei nostri figli,
i figli del 'dopo', del 'mai più'.
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Segnalazioni/A, agosto 2011. Anno XVII, 4.
Direttore: Federico Pellizzi
Redazione Newsletter: Michela Aveta, Daniele Borghi,
Eleonora Conti, Anna Frabetti, Monica Jansen, Giuseppe Nava,
Michele Righini, Saverio Voci.
Dipartimento di Italianistica
dell'Universita' di Bologna,
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Reg. Trib. di Bologna n. 6436 del 19 aprile 1995.
ISSN 1124-1578
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